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Il fucile come cuscino
Il Colombo Baczyński
POESIA INTERNAZIONALE
Giuseppe Sedia
1/14/20255 min leggere


Krzysztof Kamil Baczyński (1921-1944) è stato un poeta maledetto, suo malgrado. E forse anche ribelle nella sua ostinazione, per certi versi romantica, che lo ha portato a rovistare nella tragedia in cerca di bellezza durante l'occupazione tedesca del Paese sulla Vistola.
Un’operazione compiuta anche da altri artisti polacchi di generazioni posteriori tra quelli non intenzionati a lucrare artisticamente sulle devastazione belliche. Non lo ha fatto ad esempio Jan Komasa, enfant del cinema polacco contemporaneo, quando in Warsaw 44 (2014) mostra i due protagonisti del film avvinghiati in un bacio profondissimo che li rende impermeabili alle bombe e proiettili che danzano intorno agli amanti ma senza mai trafiggerli.
E il potere della finzione al lavoro, reso possibile dal senno di poi. Baczyński come tanti altri polacchi, studente dell'Università clandestina di Varsavia, si è trovato costretto dalla Storia con la “S” maiuscola, a imbracciare le armi. La Storia che non dato scampo o quasi alla generazione in cui Baczyński stava maturando. Un destino ineluttabile quello degli insorti di Varsavia che hanno resistito 63 giorni in una città allora ridotta in crescendo a un desolante cumulo di macerie. Come lui Tadeusz Gajcy (1922 - 1944), Józef Szczepański (1922-1944) e tanti altri scrittori nati negli anni Venti e costretti a restare per sempre ventenni.
Baczyński morì, il quarto giorno della rivolta di Varsavia, colpito a morte da un cecchino tedesco davanti al settecentesco Palazzo Blank, attuale sede del ministero del turismo e dello sport. A ricordare la sua figura due lastre di marmo dentro e fuori l’edificio. Ma a parlare sono i suoi versi per chi è disposto ad ascoltare. E il caso della splendida poesia di guerra Z głową na karabinie / “Con la testa sul fucile”, composta nel dicembre del '43 e mai tradotta in italiano così come quasi tutte le liriche del poeta varsaviano. Un motivo in più per apprezzare le poche traduzioni italiane in rete dei suoi componimenti diffuse da Paolo Statuti e Luigia Sorrentino.
Giuseppe Sedia (Montreuil, 1982) Giornalista e scrittore italiano residente in Polonia. Ha studiato presso l’Università di Napoli L'”Orientale”. Da dieci anni scrive di attualità, politica e cultura sulla Polonia per il Manifesto. Nel 2021 ha ottenuto il Premio Adam Mickiewicz per il componimento “Planty” inserito successivamente nella silloge Poesia del verbo verde (2024) pubblicata per i tipi di Nulla Die. È anche membro della FIPRESCI, la Federazione Internazionale dei Critici Cinematografici nonché autore di Kino Mania, portale web in lingua inglese interamente dedicato al cinema polacco.
Nocą słyszę, jak coraz bliżej
drżąc i grając krąg się zaciska.
A mnie przecież zdrój rzeźbił chyży,
wyhuśtała mnie chmur kołyska.
A mnie przecież wody szerokie
na dźwigarach swych niosły ptaki
bzu dzikiego; bujne obłoki
były dla mnie jak uśmiech matki.
Krąg powolny dzień czy noc krąży,
ostrzem świszcząc tnie już przy ustach,
a mnie przecież tak jak innym
ziemia rosła tęga - nie pusta.
I mnie przecież jak dymu laska
wytryskała gołębia młodość;
teraz na dnie śmierci wyrastam
ja - syn dziki mego narodu.
Krąg jak nożem z wolna rozcina,
przetnie światło, zanim dzień minie,
a ja prześpię czas wielkiej rzeźby
z głową ciężką na karabinie.
Obskoczony przez zdarzeń zamęt,
kręgiem ostrym rozdarty na pół,
głowę rzucę pod wiatr jak granat,
piersi zgniecie czas czarną łapą;
bo to była życia nieśmiałość,
a odwaga - gdy śmiercią niosło.
Umrzeć przyjdzie, gdy się kochało
wielkie sprawy głupią miłością.
La notte sento, quando sempre più vicino
tremando e tremolando il cerchio si stringe.
A me eppure la sorgente ha plasmato agile
a dondolarmi una culla di nuvole.
A me eppure le ampie acque
sulle proprie travi reggevano uccelli
di sambuco selvatico; nubi rigogliose
erano per me come sorriso di madre.
Il cerchio lento di giorno e di notte gira,
con lama sibilando recide le labbra,
per me eppure come per gli altri
la terra cresceva robusta – non vuota.
A me eppure come un bastone fumante
sgorgava la gioventù colombina;
ora nel giorno della morte mi ergo
io – figlio selvatico della mia nazione.
Il cerchio come un coltello lentamente slabbra
taglia la luce, prima che il giorno finisca,
e io dormirò per tutto il tempo della grande scultura
con la testa pesante sul fucile.
Circondato dal caos degli eventi
da un cerchio affilato squarciato in due,
la testa lancerò nel vento come granata,
il petto schiacciato nel tempo da una zampa oscura;
poiché è stata la timidezza del vivere,
e il coraggio – laddove portato dalla morte.
Si finisce per morire, quando si sono amate
grandi cose di un amore stupido.
A Baczyński e agli altri scrittori della cosiddetta pokolenie Kolumbów, ossia la “generazione dei Colombo”, scopritori volente o nolente di una Polonia riapparsa sulla carta politica europea in seguito a 123 anni di oblio — almeno tra quelli caduti durante la seconda guerra mondiale — il destino non ha dato la possibilità di costruirsi alla luce del sole una visione del mondo alternativa. Destino crudele quello riservato a questi “scopritori” a cui è stata pregiudicata la possibilità di esperire una realtà diversa che non fosse quella sotterranea della resistenza in tutte le sue ramificazioni. Un’etichetta quella della generazione dei Colombo che prende le mosse da un termine coniato da Roman Bratny e da lui impiegato nel romanzo Kolumbowie. Rocznik 20 (1957).
Ed è soltanto la più strana delle coincidenze se in “Con la testa sul fucile” Baczyński fa riferimento ad una “gioventù colombina” per parlare di sé e dei suoi coetanei che utilizzarono le carabine come cuscino. Tre decenni dopo Rafał Wojaczek (1945-1971), uno scrittore maledetto per scelta di vita, avrebbe scritto un poema in cui suggeriva di far fucilare il poeta, un modo se non altro per riflettere sul suo status e ruolo nella società. Nel caso dei vari Baczyński Gajcy, Szczepański, non si è potuto sfuggire alla Storia. Troppo tardi, l’ordine è stato eseguito: il poeta è stato fucilato.
Eppure Baczyński non ha mai rinunciato a cantare l’innocenza della vita. Anzi, sembra quasi che infanzia e natura, evocati in molti dei suoi versi, abbiano offerto quel rifugio esistenziale e simbolico capace di rendergli più lieve quel gettarsi a cuor leggero nella guerra come una “granata” sapendo di non poterne uscire. Dov’è la speranza quando per mezzo di una similitudine è il poeta stesso nei suoi versi a paragonarsi ad un’arma? “Sorriso di madre”, “nubi rigogliose” e “sambuco selvatico” vengono evocati ma con la consapevolezza che quel cerchio di morte è un cappio tagliente che non offre e non può offrire scampo a Varsavia e ai suoi abitanti. E così i versi di Baczyński presi nel loro insieme costituiscono una sorta di anticamera poetica in attesa di un tragico anno zero da qual voler e poter ricostruire la realtà.

