La Pittura, dal ritratto a Google Maps

Intervista a Giorgio Ortona

PITTURA

Iago

2/5/20248 min read

Esistono dei legami primordiali tra strumento e artista, come se fosse lo strumento a scegliere la persona e non l’inverso. La prima volta che vidi Giorgio, non potevo sapere cosa fosse, di sicuro aveva a che fare con l’arte ma venni folgorato da questa visione: un pennello che mi diceva “vedi quel tipo l’ho scelto io, perché la pittura ne ha bisogno”.

Prendo in prestito una citazione di Vittorio Sgarbi che parla di “opere il cui tratto poetico è l’incompiutezza”, perché è così importante nella tua arte questo particolare fattore di indeterminazione?

Non solo Sgarbi, ma anche altri critici hanno rilevato questa peculiarità nella mia pittura. Con Edward Lucie-Smith, si è parlato addirittura di un virus che penetrerebbe nel colore allargando questi laghi bianchi sulla superficie della tela. 

L'incompiutezza è anche quella condizione di libertà che permette di esprimersi totalmente, scardinando, se necessario, la progettualità di un'opera: intuizioni, ripensamenti, errori e certezze, macchie, sporcature ma anche perfezionismi e arrovellamenti su un dettaglio. Tutto deve entrare in un quadro, e sebbene quella che io uso è la tecnica degli antichi maestri, il pensiero è quello della ipermodernità, un operare anche nella sfera concettuale.

L'incompiutezza è anche il non voler definire una luce, che è quella di un istante dentro ad un paesaggio metropolitano, ad esempio, perché le cose che hai visto non sono più le stesse del momento successivo, perché la realtà è viva e vibrante, e tutto il paesaggio e le palazzine sono calate dentro queste vibrazioni, e le puoi cogliere e fissare solo per un attimo. Per questo forse ultimamente, sono uscito dalla città e ho assunto un punto di vista esterno, estraneo e distante. I miei paesaggi sono diventate le mappe di Google Maps, e dunque il mio discorso pittorico è diventato più astratto.

Quasi un modo di esplorare il canale di Suez, agli stadi delle città del mondo fino all'esplorazione distaccata dall'alto della mia infanzia rappresentando Tripoli, una tela di quasi sei metri, un lavoro catartico, nel quale ho ritrovato nella topografia della città pitturata, perfino l'odore del pane arabo.

Anche se molti lo negano, pare evidente l’assenza di un certo fermento culturale inter-artistico. Credi sia possibile ricostruire un confronto tra differenti modi di intendere la creatività?

Oggi, la parola più abusata in ambito artistico è contaminazione, tra l'altro tutta l'arte di oggi è contaminazione, con un paradosso, più l'arte è interrelata con altri codici o linguaggi e più l'artista è isolato in un lavoro solipsistico che non prevede il dialogo, il confronto o l'empatia verso il lavoro dell'altro. C’è molta autoreferenzialità. 

Per ciò che mi riguarda, qualunque cosa può essere spunto per lo sviluppo del proprio processo cerebrale, addirittura anche il niente.

Trovo fondamentale per il mio modus operandi, attingere dall'esperienza di altri artisti, e quando trovo qualcuno che mi sorprende e mi stimola, lo cerco, e faccio di tutto per conoscerlo. Lo scambio diventa necessario. Così ho fatto con Antonio López García, dove oramai, e già tantissimi anni sono oramai trascorsi, lo raggiunsi a Madrid, per incontrarlo e per cercare di entrare il più possibile nel suo universo pittorico. Da allora è nata un'amicizia artistica ed esistenziale che ha sicuramente condizionato il mio lavoro e il mio pensiero pittorico.

E così è stato con altri artisti.

Ciò che mi dispiace, è che, mentre in passato gli artisti si incontravano negli studi, o anche in luoghi mitici come il Caffè Rosati o il Caffè Greco, oggi l'incontro tra gli artisti è ridotto ad un like, o ad un contatto superficiale sui cosiddetti social.

Quale tipo di artista andrebbe d’accordo con te?

Premesso che nel processo lavorativo, la solitudine è un paletto imprescindibile, ed io la cerco per godermela il più possibile, mi stimolano sempre tutti gli incontri. E paradossalmente anche quelli con i cosiddetti "pittori della domenica", perché sono convinto che spesso la loro "pittura" debba esser letta come un manuale, ma al contrario, dove l'errore, (soprattutto l'errore di partenza concettuale ideativo, e non quella della mera esecuzione) diventa indicativo di ciò che non dovrebbe mai essere fatto, una sorta di manuale degli errori.

Comunque l'elaborazione di un quadro è talmente complessa, che per me è quasi impossibile spiegarla con un linguaggio che sia al di fuori di quello pittorico. È quasi tautologico, esprimo la mia essenza artistica solo con lo stesso strumento che ho scelto per esprimermi. La parola la uso più volentieri per altro. 

La musica, in particolare il jazz, e la poesia quanto incidono sul modo con cui urbanizzi la tua sensibilità trasferendola nelle tue opere?

La musica è presente costantemente nel mio quotidiano, o ascoltando oppure cercando di usare le dita per far vibrare le corde di un basso elettrico. 

Ho visto che recentemente hai intervistato un chitarrista che io amo molto, e si tratta di Francesco Bruno. Pensa che quando ero ragazzo, mi svegliavo la notte per ascoltare Raistereonotte, programma musicale radiofonico, per registrare l'ora dedicata alla musica strumentale, uno spazio che allora curava Fabrizio Stramacci, dedicandolo soprattutto alla musica d'improvvisazione (non so perché ma a me non piace usare il termine jazz, troppo snobistico). Una notte rimasi sconvolto da un brano mandato in onda dal giornalista, ed ascoltai un pezzo straordinario intitolato "Interface", composto proprio da Francesco Bruno. Rimasi impietrito dalla scoperta di quelle note. Provai la stessa emozione anche per un altro suo pezzo, "1989 Time Sharing". Allora la musica si ascoltava in questo modo. I cd erano appena arrivati. Queste scoperte, fatte così, ti rimangono per sempre.

Qualche anno fa andai ad un suo concerto all'Alexanderplaz di Roma, programmato disastrosamente in concomitanza con un derby Roma/Lazio. Il locale era deserto, nessuno spettatore, e accortomi che al posto del basso elettrico, c'era un contrabbasso, me ne tornai a casa pure io perché tendenzialmente sono attratto dal suono elettrico e non da quello acustico. Un episodio davvero divertente, perché il contrabbassista scherzando disse a Francesco: "Cazzo..., te l'avevo detto che dovevo lasciare a casa il contrabbasso!".

Naturalmente non ascoltai il concerto.

Amo talmente questo strumento che ogni tanto prendo lezioni dal bassista Mario Guarini, uno dei più grandi bassisti italiani. 

A pensarci bene, la sindrome di Stendhal l'ho sperimentata tantissime volte attraverso la musica, e stranamente quasi raramente con la pittura. Posso riportare l’esperienza rara di coinvolgimento che ho provata davanti al quadro "Madrid sur" di Antonio López, quadro che osservai e studiai per 30 giorni consecutivi, tutte le mattine, sino alla chiusura della mostra all’Accademia spagnola di Roma.

Una volta mi hai detto che non esistono pittori e poeti di serie A e di serie B. Esistono solo i pittori e i poeti. Sei ancora d’accordo con questa tua affermazione?

In un certo senso si, o stai da una parte o dall'altra. Esiste un quid, che è il tuo DNA, che ti segna, sia nel bene che nel male.

Purtroppo oggi il termine "artista" è una parola passepartout, per tutti coloro che non hanno un mestiere in mano, ma essere questo implica invece, oltre ovviamente al talento, un duro lavoro fatto su se stessi. Mi piace la definizione che un poeta svedese, Tomas Tranströmer, ha dato del processo creativo come meditazione attiva. Per me, tutta l'arte è una forma alternativa e soprattutto laica di meditazione. In questo ha un ruolo fondamentale anche il fruitore dell'arte. Il ruolo dell’osservatore di un’opera è un ruolo attivo e creativo allo stesso tempo e se la pittura è un linguaggio antico, che ha una lunga tradizione alle spalle, necessita anche di una certa lentezza per essere letta in profondità, al di là dell’emozione estemporanea. Ma oggi nella velocità bulimica della civiltà delle immagini, quanti sono in grado di apprezzare un’opera d’arte e capire a fondo il linguaggio della pittura e i suoi processi?

Domanda secca: rappresentazione o incarnazione?

Incarnazione, perché l'opera è cosa viva per l'artista.

Sono considerato un figurativo ma il mio approccio con la realtà non è un tentativo di trasportarla su un foglio, è uno stimolo che parte da una linea, e segue uno sviluppo, per poi trasformarsi in un mondo autonomo. Dentro la superficie di un quadro, se un'opera è riuscita c'è tutto un universo compiuto, che non necessita di un dettaglio in più o in meno. Pensa ad esempio ad un'opera del Caravaggio, nella sua compiutezza parla e parlerà all'infinito agli uomini, perché non è rappresentazione, ma incarnazione di sporcizia, di sangue, e di mistero e oscurità.

Sei un pittore di caratura internazionale. Di certo qui da noi la meritocrazia è un’utopia. Hai notato se fuori dalle “patrie galere” l’artista in genere riceva una considerazione diversa?

Tendenzialmente l'Italia è questa, ma sarebbe perdente non provarci. Guarda, che se sei consapevole di avere necessità di mettere al mondo un tuo pensiero, questo lo fai e basta, anche contro le avversità. Sei già a buon punto se riesci a far questo nella vita. Quello del riconoscimento è uno step successivo, e in fin dei conti, parlo per esperienza personale, se qualcosa sei, alla fine qualcuno se ne accorgerà, per forza! La sostanza può vincere la non meritrocazia. In questo il mondo digitale può aiutare, essendoci meno filtri e più diffusione, il valore esce fuori e può essere una finestra per farsi conoscere.

Conosco la realtà artistica spagnola, e visitando molte gallerie d'arte posso dire che spesso i bravi talenti riescono a lavorare e a farsi conoscere, quindi sono fiducioso che non sempre la situazione sia del tutto negativa.

Negli Stati Uniti, l'esperienza americana è stata fantastica, e ha marcato tutta la differenza dall'Italia. La prima mostra che feci a Washington, era una collettiva, alla quale neppure andai. Ebbene, dopo pochi giorni, mi ritrovai pubblicato con l'immagine del mio dipinto e un articolo di mezza pagina sulla mia opera sul Washington post, senza conoscere assolutamente nessuno. Qui in Italia, quante affiliazioni giornalistiche devi avere per un trafiletto?

Iago (1968), nome d’acqua Roberto Sannino. Poeta, performer e autore di testi di canzoni. Ha pubblicato numerose opere, tra le più rappresentative ricordiamo Delirium Tremens (2010),L’alibi perfetto (2011),Concerto per carta e inchiostro (2012),La famiglia dello scalzo (2014),Anche le scimmie odiano tarzan (2016) e Multiverso (2018). Ospitato in fiere e festival letterari e in rassegne culturali dove ha messo in atto prestazioni di scrittura poetica dal vivo. Ha tenuto incontri con scuole medie e superiori, volti a educare gli alunni alla stimolazione sensoriale nel processo della scrittura. L’ultimo lavoro in versi Dalla pietra allo specchio (2020) ha ottenuto il premio speciale della critica al GIOVANE HOLDEN di Torino.