Non più in Kansas

Un'esperienza nel deserto

PSICHEDELICA

Peter J. Meyer

2/26/20247 min read

Eravamo sei uomini, tutti professionisti della classe media, per lo più sulla quarantina, che si erano riuniti nel Kansas rurale per partecipare a una seduta di funghi psichedelici. Per un fine settimana avremmo dovuto abbandonare i mondi tradizionali del capitalismo aziendale, dell'alta tecnologia e della pratica professionale per entrare in contatto con un livello più autentico del nostro essere - qualunque cosa il fungo avesse voluto mostrarci. 

Quattro di noi, compreso il leader del gruppo, avevano avuto una notevole esperienza con gli psichedelici. Per l'avvocato Joe si trattava della prima escursione nel regno psichedelico, dopo i suoi viaggi con gli acidi di quindici anni prima. Ed, il direttore finanziario, non aveva mai fatto uso di sostanze più forti della marijuana e, sebbene curioso, non aveva idea di cosa aspettarsi.

Ci sedemmo durante il giorno, fumammo qualche canna e facemmo conoscenza con chi non avevamo mai incontrato prima. Discutemmo delle nostre ragioni, per aver fatto lo sforzo (in alcuni casi considerevole) di essere lì, per fare questa strana cosa insieme. Tutti noi, più o meno affermati nelle nostre carriere, eravamo alla ricerca di qualcosa di più soddisfacente dei gadget e delle comodità materiali che nella società consumistico-capitalista venivano rappresentati come ricompense per la fedeltà al sistema stabilito. In realtà, finalmente, stavamo esercitando il nostro diritto naturale all'autodeterminazione.

Nel tardo pomeriggio ci separammo per passeggiare nel rifugio rurale in cui ci trovavamo e per riflettere sulla vita. Alcuni di noi conoscevano l'uso degli psichedelici nell'esplorazione sciamanica e speravano che questa serata avrebbe portato un nuovo contatto con i nostri alleati spirituali. All'imbrunire ci riunimmo vicino alla capanna sudatoria, dove il fuoco ardeva per riscaldare le rocce che sarebbero servite per riscaldare l'atmosfera. Ci spogliammo, formammo un cerchio e ci passammo una canna, mentre il capogruppo invocava i poteri delle sei direzioni, chiedendo la loro protezione nell'escursione che stavamo per intraprendere nei regni al di là di questa realtà ordinaria.

Entrammo nella capanna sudatoria carponi e ci sedemmo rannicchiati intorno alla fossa centrale, in cui erano le rocce incandescenti; la porta della capanna fu sigillata e rimanemmo nell'oscurità più completa, seduti, mentre la temperatura saliva. L'acqua, gettata sulle pietre, produceva vapore, surriscaldando l’ambiente. Sudavamo abbondantemente. A un certo punto qualcuno ebbe la brillante idea di gettare dell'incenso sulla fornace. Non fu una buona idea, perché produsse nuvole di fumo che, in quel luogo a tenuta stagna, complicò la respirazione. Era buio, asfissiante e tutti ci chiedevamo quanto a lungo avremmo potuto resistere. Sembrava di essere in uno dei mondi infernali, quello caldo, oscuro e fumoso.

Alla fine, il capogruppo uscì strisciando e noi lo seguimmo, ansimando, nell'aria fresca della notte, ma subito rientrammo. Aggiungemmo nuove rocce incandescenti, ma questa volta su di esse fu gettata solo acqua. Sudammo. La capanna sudatoria è un rituale di purificazione molto comune nella tradizione sciamanica degli Indiani d'America, nonché una preparazione adeguata per un viaggio psichedelico.

Uscimmo di nuovo strisciando, dopodiché rientrammo per una terza sessione. Quando finalmente ci buttammo nella piscina limitrofa, sollevati per essere tornati alla vita, dopo l'immersione simbolica (ma fin troppo realistica) nei regni infernali, ci vestimmo e prendemmo posto in cerchio intorno al fuoco. Ognuno di noi si sedette su una sediola con una bottiglia d'acqua e un sacco a pelo, nel caso in cui avesse fatto freddo durante la notte. Il grosso cane del capogruppo, simile a un lupo, era lì, nell'oscurità oltre la luce del falò, per vegliare su di noi, durante le tenebre.

Ci passammo un'altra canna e il capogruppo ci girò intorno, consegnando a ciascuno di noi un piccolo pacchetto di funghi secchi avvolto in una bandana, assieme con una piccola ceramica dipinta sopra un pezzo di corda. Dovevamo metterla al collo, in modo tale che, se fossimo finiti in un posto difficile, questo sarebbe stato il nostro biglietto di ritorno. Prendemmo i funghi dalla bandana (che alcuni di noi hanno legato intorno alla testa). C'erano circa otto grammi di funghi secchi e croccanti (un po' più della dose standard di cinque), che mangiammo con un po' d'acqua.

Non avevamo buttato giù nulla dal mattino, così gli effetti cominciarono a manifestarsi quasi subito, dopo circa mezz'ora. La mia mente fu trasportata in uno stato leggermente opprimente e sentii come un'attrazione, mi sentivo andare alla deriva, sconnesso dalla realtà esterna. C'era un'allucinazione geometrica ai margini della coscienza. Sentivo la presenza del fungo e chiedevo in continuazione: "Chi sei? Cosa sei?". Mi stava sicuramente conducendo in qualche direzione, solo non sapevo dove.

A questo punto divenne chiaro che Ed, il nostro inesperto tripper, era in agitazione. Scattò dalla sedia, la mise da parte, si sdraiò sul suo sacco a pelo, in evidente disagio per ciò che sperimentava. Stava per essere trascinato in un regno di coscienza di cui prima non conosceva l'esistenza. Persona intellettuale e verbale, cercava di dare un senso a tutto. In seguito disse: "Continuavo a desiderare di tornare a uno stato normale per poter capire cosa diavolo mi stesse succedendo!". Per diverse ore si era girato e rigirato nel sacco a pelo, perplesso e agitato.

Circa un'ora dopo aver preso i funghi, mentre tutti erano in pieno trip, Joe, l'altro membro del gruppo, che da molto non aveva esperienze psichedeliche, dal cerchio intorno al fuoco si spostò nell'oscurità circostante. Sapevamo che era da qualche parte, là fuori, e non ci preoccupammo. Come disse in seguito Ed: "All'inizio volevo sapere cosa fare, come comportarmi, poi, ho capito, come probabilmente avevano capito tutti, che qui ognuno era da solo".

I quattro membri più esperti del gruppo rimasero per la maggior parte del tempo seduti, fissando il fuoco. Non c'era alcun suono, a parte l'incessante frinire delle cicale sugli alberi. Poi, notammo alcuni strani rumori: sbuffi, mugugni e guaiti. "Cos'è quello!", esclamò Ed, sconcertato. "Deve essere il cane", concluse. Altri sbuffi, grugniti e muggiti: suoni ultraterreni. La situazione diventò piuttosto strana. Capimmo allora di cosa si trattava. "È Joe!", gridò Ed. "Pensavo che fosse quel maledetto cane! Ma è Joe!". I suoni ultraterreni continuarono. Uno degli altri membri del gruppo commentò secco: "Beh, è comprensibile: è stato avvocato per quindici anni!". A quel punto fummo raggiunti dalla serie di suoni più strani che io abbia mai sentito. Non erano suoni umani. Forse si trattava di qualche strana entità proveniente da un regno alieno (come quelli di cui scriveva H. P. Lovecraft), che era stata attratta da questo gruppo di umani entrato in una realtà altra, e, che, si era impossessata del corpo di Joe per esprimersi. Anche se ciò che cercava di esprimere per noi era incomprensibile.

Tutto ciò era strano, ma, avendo già incontrato entità provenienti da spazi non fisici alquanto bizzarri, accolsi questa cacofonia di articolazioni aliene con un interesse distaccato. Ed, invece, stava impazzendo. L'entità aliena cominciò improvvisamente a esprimersi più forte, facendolo agitare sempre di più; a quel punto il capogruppo si alzò e uscì nell'oscurità per calmare Joe (o qualunque cosa/chiunque fosse), il quale poco dopo tornò vicino al fuoco, al sicuro, nel cerchio. Il gruppo guardò a questo episodio con divertimento. In effetti, in vari momenti della serata, il fungo aveva indotto una certa ilarità. Ci presero diverse crisi di risa. Bastava che uno di noi  non riuscisse a contenerle che tutti scoppiavamo a ridere senza poterci controllare. 

Ma, soprattutto, con l'avanzare della notte, si facevano più lunghi i periodi di silenzio. Di silenzio assoluto. Ed continuava a rigirarsi e Joe passò la maggior parte del tempo sdraiato sull'erba, fuori dallo spettro luminoso del fuoco, sorvegliato dal cane. Noi passammo lunghi periodi ad osservare il fuoco, che sembrava un essere cosciente, intelligente, e dire: "Guardatemi! Ecco guardate come brucio la legna!". Le lingue della fiamma erano vive e danzavano, consumando i ceppi, e ognuna di esse esisteva solo per un attimo. Eppure se mi concentravo, potevo catturarla nella mente, e mentre scompariva, sembrava salutarmi: "Ciao, Pete!".

La mia visione si acuì. Nel profondo del fuoco i ceppi brillavano di rosso e mi sentii un ospite nel dominio naturale del fuoco. Ogni angolo e fessura incandescente erano una rivelazione e avevo la sensazione di passare del tempo con un vecchio amico. Il fuoco era espressione di un'intelligenza più grande, che si manifestava in tutta la natura. Il fungo rivelò che l'intero mondo naturale era silenziosamente vivo e cosciente. O, come nel caso delle cicale, non così silenzioso. Esse suonavano i loro strumenti all'unisono; un semplice e ripetitivo cri cri; mi sembrava chiaro che si stessero divertendo, celebrando la vita e il fantastico mondo in cui si trovavano a vivere.

Durante i lunghi periodi in cui il gruppo stette in silenzio, ebbi la sensazione che fossimo entrati in uno stato meditativo profondo. La coscienza era lucida e raffinata, quasi eterea. Sentii di essere uno stormo di uccelli alla deriva in cielo. Sarebbe bastato girarsi e saremmo precipitati nell'abisso divino, spegnendoci nel vuoto beato. Non successe.

Per gran parte della serata percepii la presenza dello spirito del lupo e il contatto con il mio io più profondo. Riflettei sulla mia vita, sulla sua situazione attuale e sui miei progetti futuri. Mi sentii rafforzato nelle intenzioni e più certo che il cammino che avevo innanzi fosse quello giusto per me.

Quando gli effetti svanirono, un paio d'ore prima dell'alba, lasciammo spegnere il fuoco e ci addormentammo.

Ci alzammo poco dopo l'alba, preparammo il caffè mentre ci raccontavamo le nostre esperienze della notte. Ci sentivamo bene. Una donna, amica del capogruppo, comparve dopo poco e ci preparò una indimenticabile colazione.

Durante il giorno, continuammo ad affrontare le nostre sensazioni. Era stata un'esperienza sostanzialmente positiva per tutti, anche per Joe, anche se non riusciva ancora a comprendere quella sua sensazione di essere stato come posseduto. Solo Ed ebbe sentimenti contrastanti, probabilmente perché minò quel suo modo verbale-razionale con cui, sino ad allora, si era rapportato alla vita. Aveva molto da riflettere dopo l’esperienza con i funghi di quella notte, come del resto tutti noi. 

Poi, dovemmo tornare nel mondo piuttosto strano, e innaturale, dell'America di fine XX° secolo.

Peter J Meyer e Terence McKenna in Hawaii, 1987. Pic courtesy www.fractal-timewave.com
Peter J Meyer e Terence McKenna in Hawaii, 1987. Pic courtesy www.fractal-timewave.com

Peter J Meyer (1946) è nato e cresciuto in Australia. I suoi titoli accademici sono un B.A. (hons) (filosofia e matematica) e M.Phil. (fisica). Ha avuto una carriera di 40 anni come sviluppatore di software negli Stati Uniti (tra cui il software "Timewave Zero" di Terence McKenna) e come viaggiatore itinerante in Europa, Asia, Nord e Sud America. I suoi scritti (che coprono 26 anni) sono consultabili su www.serendipity.li