Sull’urgenza e l’incapacità di ascoltare l’arte

Come la poesia potrebbe salvare il mondo

COSCIENZA

Francesco De Luca

11/30/20234 min read

Foto di Zdzisław Beksiński
Foto di Zdzisław Beksiński

Scrivo perché amo il mondo. Per scavarmi dalle ossa i fantasmi che scricchiolano come una sciabola pesantissima, scintillante, dal futuro. Un ammonimento, per chi sa ascoltare e chi si connette, in un’epoca in cui ci hanno dato strumenti di connessione visuale per sconnettere l’anima.

I poeti – ripetiamolo ancora – brancolano, forse più di prima, perché hanno passato più eventi catastrofici rispetto a quelli del passato. Conoscono ciò ch’è stato capace di fare l’uomo nel Novecento. Nell’Ottocento. E così via via, a mo’ di pellicola in un cinema vuoto. Senza spettatori, né schermo.

La costante iperstimolazione nervosa (qualcuno ricorda per esempio Simmel?), a partire dal primo Novecento, ha creato un uomo sempre più assuefatto. Più distante da sé. Dal profondo sé. Perché estroflesso. Monitorflesso. 

Il web, la radio la televisione, ormai coprono con un telo non la verità, ma le coscienze, la percezione che abbiamo di noi stessi e della percezione stessa. Non ci percepiamo più connessi umanamente all’altro. Siamo monadi sconnesse con cellulari connessi al nulla. E attraverso questo nulla avanza la tempesta.

Caos. Entropia. Dispersione. Sovraccarico. Incapacità. Disvalore. Corruzione. Mafia.

Tutto accelera. Tutto è accelerato. Così, come si sviluppa di continuo la tecnologia del bene, così si sviluppa in accelerazione continua il male. L’insensibilità interna e acquisita, filtrata, necessaria per schermare un mondo che trabocca dagli schermi, dentro bocche impreparate a sostenere l’onda d’urto, ci distruggerà.

Urge fare un passo indietro. Urge riconoscere il valore dei veri poeti, degli artisti. Dobbiamo immediatamente smettere di dare importanza a chi non ha valore, ma solo visibilità. La visibilità è data dal denaro. Smettiamo di ascoltare i cantastorie, spesso lucidati dalla saliva del tornaconto personale. Torniamo a riconoscere il ruolo sociale e politico di coloro che da sempre hanno indicato, e ancora oggi indicherebbero, la direzione e descritto la condizione umana. Osservo e descrivo diceva Mickiewicz.

Non osserviamo profondamente più. Guardiamo. Vediamo. Ma non osserviamo l’anima. Anche fosse l'anima dei problemi. Non abbiamo il tempo, la forza, la volontà, la capacità.

La magia è dispersa. Negata. Schiacciata dalle Istituzioni di potere. Così nascono sciamanismi. Ondate di misticismo, isolazionismo, fanatismo. Suicidi di gruppo. Suicidi solitari. Omicidi. I poeti muoiono. Perché così tanti grandi non sopportano la vita stessa in un mondo di scimmie senza tempo.

La famiglia, di riflesso, è distrutta. Non tutte, certo. Ma quei pochi responsabili vivono nel terrore di lasciare i propri figli vagare in un mondo di belve. I genitori lavorano h24 per mantenere figli sempre più esigenti, distanti (perché non capiti e frustrati), abbandonati. I nonni invecchiano, ma non muoiono. Non muoiono per scelta. Non si lasciano neanche più morire. Un po’ per paura della morte, che ha perso il suo valore, e un po’ per il senso di dovere e di amore nei confronti di questa generazione scapestrata e deframmentata. Sempre più meno umana.

Il valore non ha valore. Il tempo non esiste. Eppure esiste quando vedi la morte.

La donna è divenuta uomo, perché a lungo trattata come oggetto. L’uomo è divenuto l’ombra di sé. Senza spada, senza ideali, scarica la violenza su di sé, sull’amore, sulla compagna, sulla famiglia, su tutto ciò che ha di buono. Si sfoga nello sport. Patatine, pizze birre e sciarpette sostituiscono le stelle del cielo, l’attenzione al miglioramento e alla crescita del sé. Tutto per non pensare.

Perché non dobbiamo pensare.

Le donne vengono uccise. Perché ai bambini, genitori schizofrenici non sanno insegnare. Bambine mostrano i culi, vestiti da puttane - perché ci piacciono le puttane, vero? - e perché i genitori non c’erano. Le han lasciate sole. Display in mano. Come tanti piccoli Alex davanti a microscopici e gigantoscopici schermi di violenza e sesso. Ma la violenza svanisce con la candidità. Non con la punizione, né con le piazzate per scaricare la tensione. Poi, si torna tutti a produrre ciò che non serve. Se non ai padroni di fabbriche e PIL.

Scendiamo in pazza, cantiamo canzoncine di moda, sventoliamo bandiere, vestendoci colorati solo per ciò che ci tocca più direttamente, per cui è traboccata la gocciolina dallo schermo della tv. Ciò che non vediamo non esiste. Ciò che non capiamo non può essere vero.

Ma non abbiamo cognizione. Non vogliamo rinunciare. Permettiamo violenza, permettiamo guerra. 


Abbiamo bisogno di una rinuncia immediata, di rinunciare al nostro ego, e ciò vuol dire:

Non volere più far carriera, non volere più arricchirsi, non volere più sgomitare, non volere più fregare, non volere più vendere, non volere più tutto ciò che ci viene propinato dalle teorie e tecniche di comunicazione di massificazione.

L’unica strada, per fermare la violenza, è abbandonare la modernità o, meglio, abbandonare tutto ciò che di superfluo offre la modernità. Partendo dal basso. Dal punto zero, e tornare al focolare. Tornare ad avere tempo per coccolare e nutrire l'amore. 

Abbandonare il vortice, abbandonandosi alla corrente. Rinunciare.

Rinunciare alla riproduzione, per riequilibrare i livelli omeostatici del pianeta. Siamo topi in gabbia, rane in pentola, senza risposte, presto senza ossigeno, senza acqua, senza nascondiglio. Abbiamo GPS spinali. Geolocalizzazioni politiche, senza coscienza. Siamo scemi. Dimostra di non essere scemo, non pensare solo di non esserlo. Scendere in piazza senza altri comportamenti sociali dimostra solo l'incapacità e l'incoerenza di chi non sa, né può o vuole, rischiare nulla di proprio per donarlo all'altro. 

Pensiamo veramente che la giustizia permei il governo che vorremmo impressionare con il nostro sfilare? 


Torniamo, quindi, al focolare. A raccontarci storie. A guardarci negli occhi. A carezzarci il viso davanti a una storia bella e necessaria. Guardiano le foglie e i rami muoversi al vento.

Ciò che abbiamo da dire, schiacciando ciò che è necessario comunicare, è davvero più importante del bisbiglio dell’universo?

Foto: © Zdzisław Beksiński, Muzeum Historyczne w Sanoku




Francesco De Luca (1979), poeta, scrittore, traduttore ed editore romano. Mediatore di Lingua e Cultura Cinese. Si Laurea in Comunicazione presso la Sapienza di Roma, nel 2004. Ha pubblicato Anomalie (2015), Karma Hostel (2019) ed è presente nell'antologia Roman Poetry Festival (2019); ha tradotto Un Uomo Felice, poesie scelte di Haizi (2020), Io e l'Italia, di Liu Xi (2022), Poesia Celeste, di Hei Wen (2023), Lo Scenario Invisibile. Mente, Allucinogeni e I Ching, di Terence e Dennis McKenna (2024).